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Terremoto: quando la memoria diventa costruttiva

"Intervista al sismologo Giuseppe Luongo, professore emerito di Geofisica della terra solida presso l’Università di Napoli Federico II"

(Approfondimenti scientifici)


Terremoto 23 - 11 - 1980 ore 19.34 

La data del terremoto che nel 1980 devastò la Campania e la Basilicata, causando migliaia di morti e ingenti danni in numerose località, deve restare scolpita nella mente come un comandamento nella pietra. La memoria storica è la base per pianificare razionalmente la nostra vita, affinché i danni che potrebbe provocare un nuovo evento sismico siano ridotti al minimo. Il ricordo quindi non deve essere inteso come un’àncora al passato ma, piuttosto, un trampolino verso il futuro.
Approfittiamo di questa ricorrenza per chiedere all’esperto sismologo Giuseppe Luongo, professore emerito di Geofisica della terra solida presso l’Università di Napoli Federico II, di chiarire alcuni aspetti legati alla sismicità del nostro territorio.

Prof. Giuseppe LuongoPer ragioni legate all’evoluzione geologica della Terra, l’Appennino – spiega il prof. Luongo – è un’area dove si accumula tensione nelle rocce che, per questo motivo, sono soggette a compressioni, stiramenti e piegamenti. Di tanto in tanto, le rocce sottoposte a queste tensioni si fratturano o si spostano, liberando l’energia accumulata che si propaga sotto forma di onde. I tremolii che noi chiamiamo terremoto non sono altro che il manifestarsi di queste onde sulla superficie terrestre. Il tratto di catena appenninica che più ci interessa, per quanto riguarda gli effetti della sismicità della provincia di Napoli e della fascia costiera campana, è il cosiddetto

Appennino Campano-Molisano e la parte Lucana.
Ovviamente – precisa il sismologo – da questo scenario sono esclusi i terremoti che potrebbero originarsi dall’attività vulcanica. Generalmente però il vulcanismo produce eventi di minore energia che, tuttavia, potrebbero essere comunque pericolosi perché più superficiali. Un esempio classico per questo tipo di eventi è il terremoto di Casamicciola del 1883 o, volendo andare più in dietro nel tempo, il sisma che colpì Pompei e le altre città vesuviane nel 62 d.C., 17 anni prima della grande eruzione del 79.

Detto questo – prosegue Luongo – nell’Appennino la sequenza di dati è sicuramente maggiore e ci permette di definire come aree sismicamente attive il complesso del Matese, la zona del Sannio e il tratto che interessa l’Irpinia fino ad arrivare al Vallo di Diano nel salernitano. La ricerca scientifica dimostra che questa regione si sta attualmente deformando ed è lecito attendersi qualche terremoto. Per fortuna la storia sismica e gli studi di geologia sembrano escludere eventi di grandissima energia. Non dovrebbero perciò verificarsi terremoti fortissimi, come è avvenuto recentemente in Giappone, ma i limiti massimi dovrebbero oscillare intorno al settimo grado di magnitudo. Considerato che il terremoto del 1980 è stimato di magnitudo 6.9, il peggiore scenario che possiamo immaginare dovrebbe essere di conseguenza molto simile.

Terremoto: ipocentro ed epicentroPer limitare i danni che potrebbe provocare questo nuovo evento sismico è fondamentale agire con giudizio, stabilendo una strategia difensiva efficiente. I percorsi per perseguire questo importante obiettivo – continua Luongo – sono due: la ricerca scientifica e le applicazioni ingegneristiche. La ricerca ha il compito di conoscere sempre meglio dove avvengono i terremoti, come si libera l’energia e qual è l’effetto della propagazione delle onde nei vari tipi di terreno. In base a questi dati può essere aggiornata, di volta in volta, la normativa antisismica che detta i criteri ingegneristici per costruire strutture capaci di subire il minor danno possibile in caso di evento sismico. Questo modo di affrontare il problema è, tuttavia, particolarmente efficiente per le costruzioni di nuova generazione; per gli edifici già costruiti invece l’unica cosa che possiamo sapere è che in certe condizioni abitative c’è maggiore pericolo rispetto ad altre. Questo ci dovrebbe dare l’opportunità di apportare gli adeguati miglioramenti strutturali. Purtroppo la scarsa manutenzione è l’elemento più drammatico per la resistenza di un edificio in muratura ad un evento sismico. Nello specifico per quello che riguarda la provincia di Napoli, distante parecchi chilometri dalle probabili aree epicentrali appenniniche, la fatiscenza dei palazzi dei centri storici sembra essere il principale fattore di rischio in caso di terremoto.

Altro aspetto fondamentale per la prevenzione è la conoscenza del fenomeno sismico da parte della popolazione. Negli ultimi tempi – spiega il professore – la società si è completamente affidata alla scienza, senza fare uno sforzo serio per capire i reali risultati raggiunti dalla ricerca; né chi fa scienza è riuscito a trovare strumenti per diffondere le giuste conoscenze acquisite. Questo ha portato all’assurda pretesa che un ricercatore possa stabilire con certezza il giorno e l’ora in cui avverrà un terremoto. È evidente che bisogna favorire la nascita di un sistema divulgativo più efficiente, capace di veicolare correttamente le informazioni scientifiche. In quest’ottica la scuola, l’università, i musei scientifici e i mass media, di concerto col mondo della ricerca, possono dare un grande apporto.

Sfortunatamente mentre discutiamo di queste cose – conclude il prof. Luongo – da qualche parte in Italia la terra sta tremando. Perché nel nostro paese i terremoti sono comuni, come il vento in riva al mare. Benché questa sia l’evidenza siamo disposti a prestare attenzione al fenomeno sismico solo al verificarsi di un evento catastrofico. Siamo come marinai sprovveduti che pretendono di scampare al vento di burrasca solo quando la nave è sul punto di affondare. Ricordare il 23 novembre 1980, per migliorare le nostre conoscenze, può evitare che tutto ciò avvenga.

Ferdinando Fontanella

Twitter: @nandofnt

articolo già apparso il 23 novembre 2013 in: www.ilgazzettinovesuviano.it 


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